Augusta: Piazza Marittima di frontiera dal XVI al XX secolo
[ I Forti Garcia e Victoria - Fortezza di Torre Avalos 1412 ]

Augusta - Nell'500

Dal Convegno Internazionale su "Frontiere e Fortificazioni" tenutosi a Firenze e Lucca dal 3 al 5 dicembre 1999.



Può la costa marina definirsi una frontiera? Se il termine non sta solo ad indicare la linea di demarcazione tra due Stati, ma anche l’insieme dei siti contro cui possa manifestarsi dal mare un’offesa avversaria, sia essa un’azione di semplice disturbo o invece un più concreto progetto d’invasione, è allora obbligatorio assegnare anche alla costa il ruolo di frontiera, con quanto ne deriva in materia di difesa.

Il XVI secolo registra nel Mediterraneo l’accrescersi della potenza turca e l’inasprirsi degli atti di pirateria barbaresca. La Sicilia, che facendo parte dal 1412 del reame spagnolo ne costituisce il naturale baluardo a Levante, dovrà allora trasformarsi in una grande fortezza, capace di parare insieme a Malta le minacce da quella direzione e contrastare ai musulmani l’uso del Mediterraneo occidentale, la cui sicurezza è indispensabile per i collegamenti tra l’isola e la Spagna. Questa strategia fa della costa siculo-orientale la frontiera più avanzata, avente i capisaldi in Messina, Augusta e Siracusa (1); di essi è perciò obbligato ad occuparsi il Parlamento palermitano, per la prima volta, nel 1531. Se però la città dello Stretto è già sufficientemente florida da poter contribuire alla difesa a proprie spese, mentre Siracusa potrà darvi l’avvìo godendo del donativo straordinario all’uopo concessole, nulla si fa per Augusta, destinata così a rimanere pericolosamente sguarnita. Grosso errore di valutazione, che sembra ignorare il ruolo invero non secondario assegnatole dalla natura su questa costa:quello di stare a guardia d’una rada che, per buona parte al riparo dalle mareggiate, non ha forse l’eguale in Mediterraneo per vastità, alti fondali, tenuta delle ancore e ricchezza d’acqua dolce sulla sua riva occidentale, ove è agevole lo sbarco per spingersi nell’entroterra. Tutti elementi che ne fanno una méta appetibile per una squadra navale nemica, tantoppiù se vi mancano le difese. Tali, in realtà, non possono più definirsi le due uniche opere risalenti al XIII secolo e di cui dispone la penisoletta lunga un miglio, che ospita il modesto abitato di Augusta: sul suo estremo settentrionale, il castello eretto da Federico II di Svevia nel 1232 contemporaneamente alla fondazione della città, per impedirvi l’attacco dalla terraferma (2); più a sud ed a due terzi della sua lunghezza, il muro eretto da Giacomo II d’Aragona nel 1288, per impedire a chi fosse sbarcato sull’adiacente piana di Terravecchia la risalita verso l’abitato ed il castello. Castello che, concepito ben anteriormente all’introduzione dell’artiglieria e mai adeguato in conseguenza, soffre ormai d’una obsolescenza che da più parti ne fa sollecitare addirittura la demolizione. Per altro, anche se opportunamente rammodernato, con la sua ubicazione legata alla funzione d’origine esso non potrebbe risolvere da solo un problema come quello della difesa di Augusta e della sua rada, che per l’epoca resta irrisolvibile non unicamente sotto il profilo finanziario, ma anche sotto quello meramente tecnico legato allo sbarramento di un sì vasto specchio acqueo. Ne è ben consapevole il viceré Ferdinando Gonzales, quando nel 1546 così riferisce a Carlo V nella sua “Relazione delle cose di Sicilia”: “Seguita Catania, in la medesima costa, il porto sopradetto d’Agosta, il qual per esser tanto grande che più tosto si può chiamar golfo che porto, non solo non è bastante a tenere il passo a nessun’armata che v’entri et vi stia, ma se fosse tre castelli di quella sorte, non basterebbero ad assicurarlo”. Ne consegue che esso “dona grandissimo adito a penetrare le viscere del Regno”, per cui sarà necessario apprestare una difesa in profondità. È così che 4 anni dopo, il viceré Giovanni de Vega fonderà Carlentini, città fortificata posta su una collina ad una ventina di km da Augusta, nell’entroterra, con il compito d’arrestare la marcia verso il cuore della Sicilia di eventuali invasori venuti dal mare. Condivisibile o meno, e in ogni caso coerente con la decisione parlamentare di nulla fare per difendere Augusta, questa impostazione vi preclude però l’impianto di alcune opere che almeno potrebbero servire da deterrente contro il nemico; il quale, non tarderà ad approfittare della situazione. Il 17 luglio 1551, infatti, un centinaio di galere provenienti dallo Stretto di Messina al comando di Senen Pascià, avendo rinunciato ad attaccare Catania pensandola fortificata, entrano indisturbate in questo porto mandando uomini a terra per rifornirsi d’acqua; l’attacco e le perdite che essi subiscono ad opera d’un contingente di cavalieri in perlustrazione, scatena la rabbiosa reazione dei turchi contro la città: prima ne bombardano il castello facendolo capitolare, poi vi sbarcano mettendola a sacco, e infine se ne allontanano lasciandola in fiamme e con un seguito di prigionieri da ridurre in schiavitù. Altre tre incursioni nel 1552, nel 1553 e nel 1560 aggiungeranno rovina alla rovina (3).

AUTORE: Tullio Marcon [ © Proprietà Letteraria Riservata ]


A cura della Redazione